Guardie o prigionieri?

di Gabriele Giacomelli.

L’esperimento carcerario di Stanford (Zimbardo, 1999) era stato volto ad osservare quali fossero le conseguenze psicologiche legate al fatto di ricoprire un determinato ruolo: prigioniero o guardia. Seguendo un protocollo di ricerca ben ordinato fu selezionato un campione di 24 partecipanti accertando l’assenza di problemi psicologici o fisici, tutti studenti che rientravano nei canoni della normalità. L’assegnazione del ruolo fu fatta casualmente. L’esperimento fu realizzato nei locali sotterranei dell’università. La simulazione prevedeva il coinvolgimento degli organi di polizia che iniziarono l’esperimento procedendo ad un “arresto” dei futuri prigionieri con accuse di furto con scasso e rapina a mano armata. Dall’arresto in poi venivano seguite le solite procedure di spersonalizzazione: perquisizione, disinfezione, attribuzione di una uniforme con il numero, una calza come berretto (per simulare il taglio dei capelli) e per accentuare la sensazione di prigionia una catena al piede. Le guardie non ricevettero particolare addestramento salvo le raccomandazioni di rispettare e far rispettare le regole. L’abbigliamento era costituito da una uniforme colo cachi, un manganello (vero), un fischietto e un paio di grossi occhiali a specchio.
Gli eventi inaspettati dell’esperimento iniziarono già dopo appena 24 ore. Una rivolta dei “detenuti” scatenò un risentimento diffuso e molto aggressivo nelle “guardie”, che si coordinarono e decisero di rispondere con le “maniere forti”. Da questo punto in poi le azioni vessatorie aumentarono sempre più come le punizioni, i favoritismi e le violazioni della sfera personale. Dopo appena 36 ore dall’inizio dell’esperimento un “prigioniero” cominciò a manifestare disturbi emotivi acuti: qui comincia la cosa più sbalorditiva dell’esperimento, poiché i consulenti invece di comprendere la difficoltà rimproverarono il poveretto per non aver resistito abbastanza! Per la decisione circa la sua liberazione occorsero molte grida del ragazzo. Ancora più sbalorditivo fu quello che accadde il giorno seguente, quando dopo la “liberazione” e le visite dei familiari (che si dissero contrariati da tutto ciò, ma senza sottrarsi alle regole proposte) si sparse la voce che si stava preparando un tentativo di fuga dei “prigionieri”.

Non solo le guardie ma lo stesso Zimbardo si adoperarono per sventare l’evento, ormai immersi nel ruolo di carcerieri e non più legato a quello di ricercatori sociali. L’attenzione alla gestione della struttura fu tale che per un giorno tutte le forze furono orientate a tale scopo “dimenticando” le registrazioni fondamentali per l’esperimento scientifico in corso.

Furono cercati informatori all’interno del gruppo dei “prigionieri” e addirittura cercato il supporto della polizia per trasferire l’esperimento in una sede più sicura! Il ricercatore riporta anche la visita di un collega che lo irritò per aver chiesto quale fosse la variabile indipendente dell’esperimento: ormai pensava solo alla sicurezza della propria struttura carceraria. La pressione sui “prigionieri” aumentò con molti episodi di umiliazione e di abuso, dopo qualche giorno le “guardie” avevano il totale controllo sugli altri.

È curioso osservare che nessuna delle “guardie” (che divenivano sempre più sadiche) chiese di allontanarsi dall’esperimento mentre 5 “prigionieri” manifestarono disturbi emotivi; nessuno del gruppo delle “guardie” arrivò in ritardo o chiese soldi extra per il lavoro fuori orario.

La conclusione anticipata dell’esperimento (6 giorni invece di 14) non fu legata solo alla registrazione dell’aumento dei casi di abuso, ma fu necessario un intervento di richiamo etico da parte di una persona emotivamente vicina al ricercatore. Mentre il gruppo dei “prigionieri” si senti giustamente sollevato dalle proprie sofferenze, non accadde altrettanto nel gruppo delle “guardie”.

Bibliografia:

Zimbardo, P. G. (1999). Esperimento Carcerario di Stanford. Retrieved from http://www.prisonexp.org/italiano/

Zimbardo, P. G., Maslach, C., & Haney, C. (2000). Reflections on the Stanford prison experiment: Genesis, transformations, consequences. Obedience to Authority: Current Perspectives on the Milgram Paradigm, 193–237

La vicenda riportata ha la chiara disposizione del clima che determina quello che oggi definiremmo “stress da lavoro correlato”, con operatori coinvolti emotivamente, emozioni negative, svalutazione dei colleghi e collaboratori, blocchi e relativi cali nella produzione fino alla manifesta volontà di abbandonare il lavoro da parte di alcuni.

Lo psicologo parla inizialmente con il capo e con i soggetti coinvolti direttamente nella diatriba, in una fase successiva coinvolge anche le operaie dell’industria, prima in forma individuale poi con una modalità “di gruppo”, fino a fare quello che noi chiamiamo

un intervento attraverso la discussione di gruppo per lo sviluppo della qualità interna: “elaborare insieme un piano di azione per ridurre il tempo in attesa delle riparazioni. Accettarono tutte con entusiasmo.” Attraverso la discussione di gruppo vengono sviluppate azioni che non solo sono utili a risolvere il conflitto ma sviluppano la produzione e il clima di tutto il gruppo lavorativo.

in tal modo il processo si sviluppa su tre direttrici:

  1. spostamento delle emozioni sui fatti;
  2. costruzione di alleanza e fiducia con il livello di coordinamento;
  3. costruzione di alleanze e fiducia all’interno del gruppo di lavoro.

Lo psicologo continua ad incontrare i soggetti coinvolti nella discussione realizzando molte mediazioni attraverso il colloquio e la condivisione delle decisioni prese dai vari gruppi coinvolti. Tutte le azioni dello psicologo sono mirate a seguire i fatti e a trasmettere le informazioni, ponendo attenzione a non influenzare o a “ingannare” qualcuno per arrivare velocemente ad una soluzione del conflitto. Incontri di gruppo e individuali si alternano per definire alcune decisioni pratiche ed alcune regole di comportamento interno, nel modo maggiormente condiviso possibile.

“Il trovarsi insieme per discutere ed elaborare un piano di comportamento, costituisce già uno sforzo verso un’azione fondata sulla cooperazione. L’atmosfera di collaborazione, franchezza e confidenza, che un procedimento si propone d’instaurare, è il risultato del superamento di numerosi ostacoli”

Nell’epilogo del racconto il capo riporta allo psicologo che il tecnico adesso aveva molto tempo libero, i rapporti tra coordinatore e tecnico erano migliorati e i conflitti con i componenti del gruppo di lavoro spariti. Addirittura il tecnico aveva istallato nello stabilimento un sistema di filodiffusione a sue spese che permetteva a tutti gli operai di ascoltare della musica.

Estremamente chiaro l’effetto del benessere sul lavoro in questa descrizione, che Lewin commenta così:

“Anche il migliore dei piani di riorganizzazione dei canali di produzione, risulta inefficace se non si adatta agli esseri umani che vivono e reagiscono nell’ambiente di lavoro”.

Per ritornare a quello che rappresenta uno strumento di lavoro importantissimo si vuol notare, insieme a Lewin stesso l’importanza di chi organizza gli incontri di gruppo:

[…] gli incontri di gruppo non sono un toccasana per tutti i mali: devono essere attentamente preparati, momento dopo momento, tenendo conto delle situazioni psicologica dell’individuo tendo conto della posizione che egli occupa all’interno del gruppo nel suo complesso”.

Bibliografia:

Lewin K. (1948). I conflitti sociali, Franco Angeli editore; ed in particolare il capitolo: La soluzione di un conflitto cronico in un’industria (1944) pag. 169 – 185.